Da un punto di vista psicologico, il fenomeno di cui tutti stiamo facendo esperienza in questa crisi sanitaria e non solo, è ciò che viene definita ‘emergenza psicologica’. Non si tratta di un evento singolo in sé minaccioso ma è definibile da un contesto più complesso caratterizzato dalla presenza di 4 elementi presenti insieme. Il primo di questi è la percezione di una minaccia, che può essere immediatamente percettibile o come nel caso del COVID 19 risultare difficilmente percepibile: in questo caso infatti il virus è visibile solo con precisi strumenti e solo da persone specializzate. Il secondo elemento riguarda la richiesta di un’attivazione rapida e rapide decisioni che ci portano ad intervenire, a decidere cosa mettere in atto e di conseguenza ad agire. Il terzo elemento fa riferimento alla percezione di non avere abbastanza risorse, “non ce la faccio” (nel nostro caso anche per la natura stessa della minaccia, come detto sopra). Per ultimo si fa riferimento ad un insieme di emozioni intense tra cui ad esempio la sorpresa iniziale ma poi la paura, la rabbia e la tristezza.
Soffermiamoci su questo quarto elemento, le emozioni, poiché la modalità con cui le gestiamo può fare molto –in positivo ma anche in negativo- rispetto a come affrontiamo questa situazione di emergenza. Per alcuni le emozioni sono il sale della vita, per altri qualcosa da evitare, per altri ancora qualcosa di incomprensibile. La realtà è che noi abbiamo bisogno di provare emozioni per rispondere all’ambiente e alle situazioni che si verificano. L’etimologia latina del termine ci porta proprio qui: ex-movere cioè tirare fuori, in senso lato ‘scuotere’, farci fare qualcosa. Proprio per il senso di utilità insito nelle emozioni, mi piace chiamarle ‘emozioni amiche’, nel senso che sono dalla nostra parte, sono una risorsa per gli uomini e ci servono per la sopravvivenza. Proviamo a pensare alle emozioni che caratterizzano questa emergenza da Coronavirus con questa nuova definizione in testa. Vorremmo ancora forse non provarle?
Dopo i primi istanti di sorpresa conseguenti alle prime notizie e informazioni circa le infezioni da Coronavirus, una delle prime emozioni che possiamo aver sperimentato è la paura. Questa emozione ci permette di proteggerci, se la riconosciamo e la ascoltiamo ci aiuta ad assumere un atteggiamento prudenziale, che ci consente di rispettare le norme igienico-sanitarie e le disposizioni ministeriali, rispetto alle quali può essere utile adottare una posizione di fiducia. Ben diverso è il panico, l’ansia da catastrofizzazione, la visione negativa del futuro. Questi sentimenti estremi non sono utili poiché peggiorano le nostre capacità di difenderci, ci allontanano dalla nostra capacità di usare la razionalità a favore della creazione di circoli viziosi tra pensiero disfunzionale e conseguente sensazione spiacevole (andrà tutto male—ansia—andrà tutto male—ansia). Di fronte ad una minaccia, spesso gli individui sentono il bisogno di conoscere, di capire, con lo scopo di prendere il controllo della situazione, e lo fanno attraverso la ricerca di informazioni. Attenzione però a non sovraesporsi alle notizie perché il rischio che si corre è quello di mantenere mente e corpo in uno stato di costante attivazione. A tal proposito si consiglia di scegliere canali ufficiali dai quali ricevere informazioni sull’andamento dell’emergenza e dedicare uno-due momenti nel corso della giornata all’atto dell’informarsi. Inoltre può essere utile mantenere la propria routine, perché ci consente di ancorarci a ciò che è conosciuto e ci dà sicurezza e continuità.
Ad alcuni sarà capitato anche di arrabbiarsi nel corso dell’emergenza da Coronavirus. Ebbene sì, un’altra emozione di cui possiamo fare esperienza in relazione al momento che stiamo affrontando è la rabbia. Rabbia per ciò che viene deciso o per ciò che doveva essere fatto prima o ancora collera per chi non rispetta le regole o per chi è troppo ligio alla loro messa in atto. Come per la paura, anche nel caso della rabbia si può affermare con certezza che la sua funzione sia adattiva: funge da allarme e segnala ad esempio che i nostri diritti sono stati violati, i nostri bisogni disattesi. Anche in questo caso non riconoscere il proprio vissuto di rabbia la può trasformare in qualcosa di poco funzionale: quando ci arrabbiamo spostiamo l’attenzione sull’altro e di conseguenza ci allontaniamo dalle nostre vulnerabilità, ci distraiamo dai nostri scopi. Per rimanere in tema Coronavirus, sui social imperversano le critiche rabbiose verso la categoria dei runner e simili. Lungi da me esprimere un giudizio sulla correttezza o meno di tali scelte, credo però che si possa incorrere in quello che viene definito rimuginio rabbioso che ancora una volta sposta l’attenzione sull’operato dell’altro, consentendo poco o niente di riconoscere forse la propria paura lecita collegata alla possibilità che il non rispetto da parte di altri della norma ‘stare a casa’ contribuisca all’aumento dei contagi. Per contrastare le possibili conseguenze di una rabbia mal gestita può essere utile prendere questo tempo a disposizione dedicandoci a noi stessi e alle nostre responsabilità, mantenendo i contatti sociali con i propri cari secondo le modalità consentite.
Anche l’esperienza della tristezza può caratterizzare alcuni momenti nel corso di questo periodo preoccupante e soprattutto nuovo. Questa emozione viene sperimentata in diverse situazioni il cui tema centrale è quello della perdita: prima di tutto stiamo perdendo vite umane, perdiamo i nostri riferimenti quotidiani, le nostre abitudini, perdiamo i contatti relazionali nel modo in cui eravamo abituati ad averli. Per quanto la tristezza si manifesti con sensazioni poco piacevoli (è per questo che, insieme a rabbia e paura, la definiamo emozione negativa, per la manifestazione sensoriale spiacevole), anche in questo caso tale emozione racchiude in sé aspetti di funzionalità: riconoscerla ci permette di ‘stare dentro’, con noi stessi e portare l’attenzione all’oggetto che abbiamo perso in funzione di una corretta elaborazione mentale. Nel tentativo di non estremizzarla, trasformandola in un costante e duraturo sentimento di afflizione, può rivelarsi utile, una volta che ci siamo accorti di essere tristi e ci permettiamo di esserlo, ritornare agli aspetti di gestione concreta della quotidianità. Atteggiamento questo che consente di spostare consapevolmente l’attenzione verso qualcosa di meno doloroso, comportamento che è assai diverso dalla distrazione subdola con cui ci diciamo di andare a svagarci dopo aver perso una persona cara.
Qualora ci accorgessimo che le emozioni di cui facciamo esperienza creano disagio e interferenza nelle varie aree della nostra vita, può essere indicato chiedere aiuto ad uno specialista, senza il timore di sentirci ‘deboli’: tutti possiamo avere bisogno di un sostegno o un confronto per comprendere meglio ciò che proviamo e gestire meglio i nostri vissuti emotivi.